Metafisica dei Cristalli - Introduzione D. - Prologo (Gv. 1-18) - Commento di G.F. Ravasi

 
Livello num.
  1. Metafisica dei Cristalli 1
  2. Emisfero Destro
  3. Prologo (Gv. 1-18)
  4. Metafisica dei Cristalli - Introduzione D. - Prologo (Gv. 1-18) - Commento di G.F. Ravasi
Revisione
n. 0 - 21/07/1991 - autore G.F. Ravasi
Visualizzazioni : 11.346
 
COMMENTO AL PROLOGO DEL VANGELO DI GIOVANNI (vv. 1-18)
È utile seguire il testo di Giovanni per seguire il linguaggio abbastanza «tecnico» dell'evangelista.
Il Prologo è un'introduzione al Vangelo di Giovanni, una prefazione entrata nel testo evangelico successivamente, ma che originariamente non apparteneva al Vangelo di Giovanni. Non è, però, la solita stereotipa presentazione, fatta spesso stancamente da qualche autore famoso al libro di un autore più modesto. Questo prologo è un capolavoro. Giustamente è considerato una delle perle della letteratura neotestamentaria.
Con questa grande meditazione iniziale l'autore è riuscito a presentare, in sintesi, quello che verrà sviluppato successivamente. Nel Prologo infatti troviamo quaranta termini che sono propri del Vangelo di Giovanni. Per tale ragione la comprensione del Prologo è determinante per tutto il Vangelo di Giovanni.
Leggendo il Prologo, è facile scoprire una caratteristica a cui già si è accennato, tipica dello stile di Giovanni. Tecnicamente si usa definirla in waves cioè «a ondate». Immaginiamo le onde del mare che muoiono sul litorale. Arrivano fino alla battigia, qualche onda va oltre, qualche onda resta più indietro, però più o meno ricoprono un determinato spazio, e si richiamano alternativamente.
«In principio era il Verbo,
e il Verbo era presso Dio
e il Verbo era Dio.
Egli era in principio presso Dio:
tutto è stato fatto per mezzo di lui,
e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste.
In lui era la vita
e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre,
ma le tenebre non l'hanno accolta».

Si vede un intrecciarsi continuo dei vocaboli, un gioco ricorrente di onde tematiche. La stilistica, semitica è spesso caratterizzata da questo movimento a ondate.
Con queste prime battute il Prologo è già delineato. Citerò le parole di un commentatore, Brown, nella sua presentazione sintetica del prologo:
«Si tratta di un inno cristiano primitivo proveniente da ambienti giovannei che è stato adattato per servire da introduzione al racconto evangelico della vita della Parola incarnata».
È una definizione efficace ed essenziale che delinea già nel motivo finale, il tema: «la vita della Parola incarnata».
Leggeremo tre strofe di questo carme, il quale si presenta con alcune aggiunte molto evidenti perché la prosa subentra alla poesia. Le inserzioni o parentesi sono per l'esattezza i vv. 6-9 e i vv. 15-18.

1. In principio il Logos
Cominciamo con la prima strofa che comprende i vv. 1-5. È una grande cristofania: il Cristo entra in uno scenario dagli orizzonti cosmici e universali. Infatti il primo vocabolo è «en arché» che richiama una parola ebraica: bereshit, in principio che si trova nel primo libro in assoluto della Bibbia, la Genesi.
Ci sono perciò due grandi inizi secondo questo inno. C'è l'inizio lontano, il principio dell'essere, il principio mirabile della creazione, cantato e illustrato attraverso quelle sette giornate di Gn 1, che simboleggiano la perfezione. L'ebreo getta entusiasta lo sguardo sull'universo scorgendovi un'architettura mirabile, realizzata in una settimana di meraviglie. Per il cristiano c'è questo nuovo, grande inizio, questo bereshit, en arché, «in principio», che segna l'origine della nuova storia, del nuovo cosmo, della nuova organizzazione di tutto l'essere.
Subito dopo, infatti, si sente che Giovanni allude ancora a Gn 1; si tratta di una parola fondamentale. Là si diceva:
«in principio Dio creò il cielo e la terra»,
e subito Dio entrava in scena sulla platea del nulla e parlava:
«Dio disse».
Subito il mondo cominciava a nascere attraverso una specie di gestazione mirabile ritmata soltanto da quel ritornello, da quel «disse» di Dio che risuona come un comando potente.
Il Prologo dice:
«In principio c'era il Logos»,
la Parola. Il Logos è il Cristo. Con questa definizione il Vangelo di Giovanni introduce un tema teologico di grande rilievo.
Perché Giovanni ha chiamato Cristo Logos? Alle spalle aveva certamente quel riferimento biblico che abbiamo illustrato; ma ne aveva anche tanti altri. Qualche studioso, per esempio, per commentare questo passo è risalito nei secoli fino ad approdare nientemeno che alla teologia egiziana di Memphis. Gli archeologi hanno scoperto una famosa stele di un faraone vissuto verso la fine dell'VIII secolo: Shabaka. Questa stele contiene una importante invocazione, che è la citazione di una preghiera che risale alla prima dinastia egiziana. Siamo attorno al XXIX secolo a. C., nel 2850. Questa invocazione, citata duemila anni dopo dalla cultura egiziana, presenta il Dio di Memphis, Dio creatore, Phtah, mentre sta creando. Vi si legge:
«Tutte le cose che sono state create hanno nel loro interno il cuore e la parola di Phtah»
cioè la parola di Phtah diventa la realtà creata, tanto la parola divina è efficace. A Babilonia Marduk parlava e nel cielo apparivano le costellazioni dello zodiaco. Si tratta quindi di una teologia molto antica.
Però io penso che si debba rimanere nell'ambito della cultura biblica e tenere presenti molte bellissime pagine dell'Antico Testamento, dove la parola di Dio ha una dimensione tale da far pensare a una personificazione. Ricordiamo la scena del c. 18,14-15 della Sapienza:
«Mentre un profondo silenzio avvolgeva tutte le cose, e la notte era a metà del suo corso, la tua parola onnipotente dal cielo, dal tuo trono regale, guerriero implacabile, si lanciò in mezzo a quella terra di sterminio, portando, come spada affilata, il tuo ordine inesorabile».
La parola di Dio scende come un angelo, attraverso i cieli, piomba nella notte sulla terra dell'Egitto, diffonde il terrore e porta il giudizio di Dio.
Possiamo anche riferirci a quel bel finale di un poeta biblico delicato e intelligente, il Secondo Isaia.
È un profeta anonimo, la cui poesia lirica è entrata nella seconda parte del grande rotolo di Isaia, e precisamente nei cc. 40 e 55. La sua conclusione è di estrema freschezza, molto vicina alla sensibilità degli orientali.
«Come infatti la pioggia e la neve scendono dal cielo, e non vi ritornano senza aver irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, così sarà della parola uscita dalla mia bocca».
La parola di Dio è realtà viva, continuamente operante. E potremmo andare ancora avanti e ricordare quel bellissimo testo di Ger 23,29:
«La tua parola, o Signore, è come il fuoco, è come il martello che spacca la roccia».
Il Logos del prologo si mette subito in azione, come la parola divina dell'Antico Testamento.
Per noi parola e azione sono distinte, ma, se teniamo presenti la mentalità e la cultura semitica, non possiamo affermare che Cristo è soltanto la Parola: Cristo è anche l'azione.
Non è quindi esatto quello che Goethe ha detto nel Faust, allorché egli contrappone la parola, quale elemento salvifico, all'azione, quale elemento demoniaco. Per la Bibbia invece affermare che in principio è il Logos, vuol anche dire che in principio c'è questa energia vitale suprema: il Logos è il creatore.
Per completare questo discorso, potremmo ricorrere anche ad un'altra categoria dell'Antico Testamento, una categoria ugualmente nota. Si tratta della Sapienza, hokmah, sophia. La Sapienza nell'Antico Testamento è lo strumento che Dio usa per creare; ma è insieme qualcosa di se stesso, che procede da lui.
Anche nel mondo egiziano si trovano interessanti analogie: la dea Maat che usciva dal dio Ra. Ci sono delle raffigurazioni all'interno dei templi, soprattutto nella cella ultima della divinità, dove il dio Ra è in piedi e ai suoi piedi c'è una fanciulla molto bella, dai lineamenti delicati, con una veste trasparente e una piuma sul capo. È intenta a creare, a plasmare, a manipolare la materia. È il dio stesso Ra, il dio sole, che agisce attraverso la dea Maat, la sapienza.
Pensiamo anche al capolavoro del c. 8 dei Proverbi, l'autoinno della Sapienza (vv. 8,22-31). La Sapienza entra in scena e descrive poeticamente ciò che ha fatto nella sua grande officina del mondo, illustra tutti i suoi capolavori.
In Cristo, c'è parola e azione, progetto e la sua realizzazione. Ecco infatti come l'inno del Prologo continua:
«Egli era in principio presso Dio:
tutto è stato fatto per mezzo di lui,
e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste»
.
In greco abbiamo questa frase lapidaria:
choris autoù oudé en,
«fuori di lui: nulla»; fuori di lui, il silenzio. L'essere è tutto sospeso a questa azione di Dio. E questo tema si ripeterà nel v. 10, dove si riafferma:
il mondo fu fatto per mezzo di lui.

2. Il Logos diventa luce e vita
Facciamo ancora un passo in avanti. Il Logos, entrato nel vasto scenario del cosmo, all'improvviso diventa luce. Secondo la Genesi, la prima cosa creata è stata la luce; ora la luce riappare in una maniera assolutamente nuova, perché è connessa ad un'altra realtà, la vita.
In lui era la vita (in greco zoè)
e la vita era la luce degli uomini (phós, in greco)
.
Zoè e phós: Dio in Cristo manifesta la sua luce e la sua vita. Qui abbiamo un tema che percorre tutto il carme e lo riempie di luce. Tutto l'inno è pervaso di luce:
La luce splende nelle tenebre,
ma le tenebre non l'hanno accolta;

Giovanni venne
per rendere testimonianza alla luce.
Egli non era la luce.
Veniva nel mondo la luce vera.

La luce è immagine e simbolo di Dio. Infatti la luce è contemporaneamente esterna a noi e penetra dentro di noi: Dio è insieme lontano e vicino. Dio è distante (io non afferro la luce; è una sorgente al di fuori di me), eppure la luce mi pervade, mi avvolge senza che io me ne accorga e mi rende visibile agli altri. La luce mi scalda e mi illumina. Ecco allora la luce diventare la rappresentazione solenne e grandiosa del Logos, che è come Dio, fonte di vita.
Ma subito emerge un'antitesi: la luce richiama in modo dialettico le tenebre, la skotìa. Questo termine ricorda un altro motivo giovanneo che ci accompagnerà durante tutto il Vangelo, secondo lo stile rigoroso di Giovanni che non si smentisce mai: si tratta del celebre dualismo giovanneo, Luce e tenebre si sfidano a battaglia sull'orizzonte di questo mondo, si scontrano ininterrottamente.
33
Non è la battaglia già cantata dai «monaci» di Qumran, il famoso «monastero» giudaico sulla costa occidentale del mar Morto, distrutto dai romani. Uno dei libri di questa comunità ha infatti per titolo: Regola della guerra dei figli della luce contro i figli delle tenebre. Per Giovanni il contrasto fra luce e tenebre non è di tipo apocalittico, non è la battaglia definitiva, che distrugge tutta la storia quasi fosse priva di senso, perché pervasa soltanto da tenebra, skotia. Per Giovanni la lotta si svolge nella storia e ne costituisce la trama. È un movimento oscillatorio tra la luce e le tenebre. Ed egli introduce già fin d'ora il dramma di questa tensione continua della storia.
Cerchiamo ora di fissare l'attenzione su un verbo greco che ritornerà tre volte, in forme diverse, in tutto il prologo:
«Le tenebre non l'hanno accolta (katélaben) ».
Il verbo katalambano ha tre significati: capire («le tenebre non hanno capito la luce», non riescono a capire il mistero del Cristo); afferrare («le tenebre non l'hanno accolta»); vincere. Ci troviamo di fronte a un triplice valore possibile. La cristofanìa luminosa del Cristo non è accolta, non è capita. Poiché nel greco moderno questo verbo viene usato ancora oggi col significato di «capire» è probabile che il senso del verbo greco sia rimasto immutato lungo i secoli nella realtà viva della lingua.
Penso però che non si debba escludere anche il significato di «vincere». Si tratta di un senso ben documentato:
«le tenebre non hanno vinto la luce».
C'è un testo molto bello della letteratura giudeo-cristiana: Le odi di Salomone, che probabilmente allude a una festa notturna che si celebrava dai giudeo-cristiani nel I secolo della chiesa. Durante la notte i cristiani uscivano dalla città e si inoltravano fino ad immergersi in una folta foresta. Durante tutta la notte cantavano inni che si ispiravano al tema della morte e della passione. Una sentinella aveva l'incarico di impedire che ci si addormentasse. La notte infatti era lunga e alcuni cedevano alla stanchezza e si addormentavano. La sentinella vigilava attenta e quando si accorgeva che incominciava a rendersi percettibile il chiarore dell'aurora, la prima luce del mattino, accendeva una torcia e gridava: «Che la luce non sia mai vinta!» «Che la luce non sia mai schiacciata!» e usava proprio il verbo katalambano. Era quindi un invito alla speranza e alla gioia.
Come accompagnato da una marcia trionfale, il Cristo entra in scena: egli è la Parola, la Sapienza, la Luce, la Vita. Attorno ci sono le tenebre, ma egli si erge con lo splendore della luce che non può essere schiacciata.

3. Il Battista non era la luce
A questo punto troviamo la piccola parentesi dei vv. 6-9, sulla quale occorre spendere qualche parola e dare qualche chiarimento:
«Venne un uomo mandato da Dio
e il suo nome era Giovanni.
Egli venne come testimone
per rendere testimonianza alla luce,
perché tutti credessero per mezzo di lui.
Egli non era la luce».

Come già si è detto, il Vangelo di Giovanni è sottilmente polemico contro quelli che, anche dopo la venuta di Gesù, hanno continuato a seguire il Battista. Una vena polemica è riscontrabile in questi versetti:
«Egli non era la luce,
ma doveva rendere testimonianza alla luce».

Dopo questa precisazione, segue un'affermazione stupenda, che in greco è di una bellezza unica. È un versetto strutturato in modo caratteristico proprio del greco della Bibbia del periodo ellenistico:
«Veniva nel mondo la luce vera
quella che illumina ogni uomo».

San Gerolamo non è riuscito a recepire il senso originale di questo versetto. La sua interpretazione suona così:
«C'era la luce che illuminava ogni uomo che veniva nel mondo».
Tale traduzione non è esatta. Il versetto infatti si compone di tre parti. All'inizio abbiamo:
«(Il Logos) era la luce vera», la seconda riprende lo stesso soggetto dell'inizio:
«la luce (il Logos) illumina ogni uomo»,
l'ultima parte è costituita sostanzialmente da un participio greco che ha come soggetto ancora la «luce» o il Logos. Giovanni Battista è semplicemente e soltanto una lampada, Cristo è la luce che viene a illuminare il mondo.
Commentava finemente Agostino, che la presenza di una lampada accesa non ha alcun senso, quando ormai è sorto il sole ed è apparsa la luce vera.
Giovanni nel c. 3 si presenterà semplicemente come l'amico dello sposo. Quando lo sposo è presente, l'amico si mette in disparte o, tutt'al più, dirige le cerimonie. L'amico dello sposo, nella legislazione orientale, aveva la funzione precisa di preparare l'incontro dello sposo con la sposa, di curare gli interessi economici e sociali, e anche le relazioni amorose, perché era il tramite discreto dei reciproci sentimenti dei fidanzati. L'amico, però, quando entrano in scena lo sposo e la sposa, si ritira.

4. Il mondo non lo riconobbe;
i suoi non l'hanno accolto

Analizziamo ora il resto della seconda strofa che comprende i vv. 9-11. La seconda e la terza strofa vanno messe in parallelo, come se si trattasse di un dittico. Questa seconda strofa è tutta piena di ombre e di oscurità: è la reazione negativa alla luce, come un quadro con violenti chiaro-scuri. La luce è apparsa e comincia il rifiuto. Leggiamo prima la traduzione del testo:
«Veniva nel mondo
la luce vera,
quella che illumina ogni uomo.
Egli era nel mondo,
e il mondo fu fatto per mezzo di lui,
eppure il mondo non lo riconobbe.
Venne fra la sua gente,
ma i suoi non l'hanno accolto».

Il primo percorso del Logos è all'interno del kosmos, il mondo. Il termine kosmos nel Vangelo di Giovanni significa tre cose in progressione:
l. kosmos è l'universo creato, come per noi;
2. kosmos sono gli uomini che riassumono in sé tutto l'universo perché lo spiegano;
3. kosmos diventa progressivamente il male e il rifiuto di Dio.
Quindi c'è una progressione che va man mano restringendosi, con cerchi concentrici sempre più ristretti che passano dall'orizzonte positivo a quello negativo. Così si arriva a una parola che gela il sangue:
«Il mondo non lo riconobbe».
Conoscere: nel linguaggio della Bibbia il verbo ha una notevole ricchezza di significati, con molteplici risonanze. Non vuol dire semplicemente conoscere, capire, vuol dire anche amare. In senso negativo vuol dire non amare, rifiutare attivamente, combattere.
Ma la luce di Cristo avanza in mezzo alle tenebre. Di qui il dramma delle comunità cristiane di origine ebraica, che sperimentavano all'interno delle proprie famiglie la divisione. Alcuni erano diventati cristiani e altri erano rimasti giudei. La sinagoga e la chiesa non erano assolutamente in sintonia, anzi vi era una crescente tensione. Gesù aveva detto: Passerà la divisione in mezzo alle famiglie: padre contro figlio, madre contro figlia, suocera contro nuora, fratello contro sorella.
Questa divisione all'interno della comunità era vissuta drammaticamente. Nel Vangelo vi era una chiara allusione a questa situazione. Le parole greche usate sono particolarmente significative. Cristo entra: eis tà ídia.
Idia vuol dire «la casa», la propria abitazione. Cristo entra nella sua casa. Egli è ebreo, entra nella casa della promessa dove trova gli idioi, i «suoi», i suoi «familiari». In greco idioi significa appunto «familiari». Ed essi non lo accolgono, lo rifiutano.
Nell'Antico Testamento il popolo ebraico era chiamato segullà di Dio, la «proprietà» di Dio. Segullà è un'espressione poetica, un'immagine pastorale che designa il gregge che appartiene al pastore. I pa¬stori erano una categoria di persone di condizione sociale molto bassa e poverissima che non potevano permettersi di avere un gregge proprio. Conducevano al pascolo greggi che appartenevano ad altri padroni. Ciononostante, a prezzo di grandi sacrifici, riuscivano a diventare proprietari di due o tre pecore che chiamavano appunto la segullà: la mia proprietà, la cosa più preziosa. In latino si direbbe peculium, da pecus, «gregge».
Ebbene, questa segullà di Dio, questa proprietà non riconosce il Figlio. Ricordate il verbo Katelaben, che abbiamo incontrato prima? Ora il verbo usato è parelabon che ha la stessa radice greca: gli idioi, i familiari, non accolgono il Cristo, gli chiudono la porta in faccia. È il dramma del rifiuto.
E qui si apre un altro tema, che il commento di Bultmann sviluppa con grande incisività e che noi avremo occasione di esaminare a fondo: il tema del processo.
Il Vangelo di Giovanni sembra costruito seguendo lo spartito in un'assise processuale. Ci sono testimoni, ci sono interventi diversissimi, c'è un giudizio, il tutto in uno scenario tipico dei processi. Alla fine viene emessa la sentenza, una sentenza sorprendente in senso assoluto: è paradossalmente ambigua tanto che viene interpretata in modi diametralmente opposti. Da una parte c'è chi è convinto che la sentenza significhi la sconfitta definitiva di Cristo, dall'altra si è parimenti convinti che quella sentenza sia il più grande trionfo di Cristo. La sentenza di cui si parla ha un nome la croce. E in essa che viene pienamente evidenziato il rifiuto.

5. A quanti l'hanno accolto
ha dato il potere di diventare figli di Dio

Ed ecco la terza strofa, che mette in risalto la reazione positiva. Nei vv. 12-14 risuona ancora il verbo elabon, ora però in senso luminoso:
«A quanti però l'hanno accolto (elabon)
ha dato potere di diventare figli di Dio:
a quelli che credono nel suo nome,
i quali non da sangue,
né da volere di carne,
né da volere di uomo,
ma da Dio sono stati generati.
E il Verbo si fece carne
e venne ad abitare in mezzo a noi;
e noi vedemmo la sua gloria,
gloria come di unigenito dal Padre
pieno di grazia e di verità».

Facciamo l'esegesi di questa pericope esaminando accuratamente le varie parti. Elabon esprime la reazione positiva degli uomini. Chi sono quelli che accolgono gioiosamente il Cristo? Con una descrizione tipicamente giovannea, sono definiti:
quelli che credono nel suo nome.
Nel mondo semitico il «nome» è la persona; il nome lo si rivela soltanto alla persona amata; non lo si rivela agli altri. Dio ha taciuto il suo nome: Io sono colui che sono. I cristiani sono coloro ai quali è stato rivelato il nome di Dio, e perciò essi credono nel nome di lui, credono muovendosi verso la sua persona. Come è stato detto bene da uno studioso di Giovanni, I. de la Potterie, questa espressione rappresenta l'inserzione mistica del credente in Cristo. Il credente non soltanto accoglie il Cristo, ma entra in lui, abita in lui, vive completamente immerso in lui. E così, se il credente è all'interno del Cristo, non è più un estraneo. Ecco perché il Vangelo di Giovanni alla domanda: Chi siamo noi? dà questa risposta:
Noi siamo diventati figli,
i figli di Dio. E qui incontriamo una curiosità filologica che vorremmo spiegare. Il testo parla della filiazione adottiva e lo indica con precisione adoperando una parola diversa da quella che usa per indicare la filiazione divina del Verbo. Il Verbo è il Figlio per eccellenza; noi siamo figli adottivi. Nella lingua greca ci sono due parole per indicare il «figlio». La prima, la più comune è la parola classica: hyós. Il Logos è il figlio per eccellenza. In tutto il Vangelo di Giovanni uno solo è l'hyós: sempre e soltanto il Cristo. In questo passo del Vangelo, Giovanni ha usato però un altro vocabolo, tékna Téknon, in greco, significa ancora figlio, ma con una accentuazione diversa. E allora: noi siamo i figli, cioé tékna; Cristo soltanto è l'hyós.
Eppure, questa generazione si realizza in modo misterioso. Dice Giovanni: questa nostra generazione non avviene mediante il sangue (in greco: aimaton al plurale e vedremo subito il perché) e attraverso la carne, sarx. Non è cioè una generazione che passa attraverso l'uomo e la donna.
Il linguaggio usato probabilmente riflette (anche questa è una delle tante curiosità disseminate nel testo) la cultura e le conoscenze fisiologiche dell'antico oriente. C'era infatti la convinzione che il bambino nascesse dal sangue mestruale unito al seme maschile. Ecco perché c'è il plurale: i «sangui» della donna e il seme dell'uomo. La filiazione divina non avviene attraverso i meccanismi biologici con la collaborazione dell'uomo, ma è una generazione che si realizza con l'intervento misterioso di Dio: siamo stati generati da Dio e non dalla carne e dal sangue. La carne e il sangue ci fanno creature; mentre diventiamo figli attraverso questo misterioso processo della generazione divina che esclude la partecipazione della carne e del sangue.
Ora siamo in grado di capire perché molti padri della chiesa hanno corretto questo testo e non hanno quasi mai voluto accogliere il plurale, come invece richiede il passo. Hanno preferito il singolare. Il perché lo possiamo immaginare. Chi infatti è nato «non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio è stato generato», (al singolare)? È il Cristo. I Padri scoprivano in tale testo, letto al singolare, la proclamazione del Figlio (hyós) in assoluto. Effettivamente il Cristo è il nostro modello, e la nostra generazione è modellata sulla sua.

6. Il Logos si è fatto carne
ed ha posto la sua tenda in mezzo a noi

La filiazione divina e quella adottiva nel prologo di Giovanni ormai si intrecciano puntando al vertice, mirando alla conclusione. E la conclusione è la proclamazione finale, quasi blasfema soprattutto per l'ebreo. E ancora di più per il musulmano.
Maometto più di una volta nel Corano e all'interno dell'hadith, cioè i detti extracoranici, lancia un'accusa ai cristiani e chiede: perché voi «uomini del libro», voi cristiani, continuate a dire che egli (Dio) è carne? Questa affermazione è per Maometto inconcepibile, è una vergogna, è una maledetta menzogna.
Il Verbo si è fatto carne e ha posto la sua tenda in mezzo a noi.
Carne, nel linguaggio di Giovanni, come ben sappiamo, è la realtà fragile dell'uomo, è l'umanità così come si rivela nel quotidiano. Il Logos che era apparso in tutto il suo splendore e potenza all'inizio dei tempi e del cosmo, si immerge paradossalmente nell'abisso della nostra miseria.
Nel diario del 1841, Kierkegaard scriveva una frase, che riassume in poche parole quello che si sta dicendo:
«L'idea della filosofia è la mediazione, quella del cristianesimo è il paradosso».
Il Logos che diventa carne è il grande paradosso. Due estremi, zenith e nadir si congiungono: la carne, fragilità estrema, si unisce alla divinità. E Giovanni conclude:
«Egli ha posto la sua tenda (eskènosen)
in mezzo a noi»,

è venuto ad abitare con noi. Questo vocabolo è stato scelto con singolare finezza. L'autore ha dovuto selezionarlo fra molti vocaboli possibili perché il verbo eskénosen vuol dire in greco «mettere la tenda». L'allusione alla grande tenda del deserto è trasparente, perché essa era segno della presenza di Dio. Il pensiero va anche a Gerusalemme, a Sion, che era luogo nel quale Dio si rendeva presente in mezzo al suo popolo. Però non si esaurisce qui tutto il valore del simbolo. Prima c'era la tenda di pietra, cioè il tempio di Gerusalemme, ora c'è la tenda di carne, di Cristo uomo, la sua umanità, il vero santuario, il tabernacolo massimo, la vera arca dell'alleanza.
Ma c'è qualcosa di ancora più sottile e raffinato, c'è un'allusione che gli ebrei potevano cogliere. Osserviamo bene questo verbo: eskénosen; la radice è formata da tre lettere: s k n. Ora, gli ebrei per non pronunciare il nome di Dio presente nel tempio di Gerusalemme, usavano questa espressione: la shekinà, che vuol dire la presenza. E le radici di questa parola sono s k n. Ebraico e greco sono evidentemente due lingue diverse che non derivano certamente l'una dall'altra. Accostando questi due vocaboli, però, Giovanni intendeva comunicare all'ascoltatore che Cristo figlio di Dio ha posto la sua «tenda» e la sua «presenza» in mezzo a noi. Una presenza che richiama quella del tempio di Gerusalemme, il luogo della shekinà di Dio. Il Logos è la shekinà, la presenza viva di Dio in mezzo a noi. Questa presenza è il traguardo di un itinerario iniziato nei cieli, che termina quaggiù sulla terra, e precisamente nella realtà fragile dell'uomo.
Anche noi ora possiamo contemplare questa teofania del Monoghenès, dell'«Unigenito» del Padre che assume l'umiltà della nostra carne malata, fragile e mortale, limitata nel tempo, nello spazio. A questo punto possiamo affermare che Giovanni è riuscito a trovare il modo di svelare il cuore del cristianesimo.

CONCLUSIONE
Come commento conclusivo, leggiamo alcune parole scritte il 16 luglio 1944 da Dietrich Bonhoeffer. Questo pastore protestante, pochi mesi prima di essere impiccato, quindi nell'imminenza della sua fine, ha scritto con grande essenzialità e finezza un testo che potrebbe essere un commento al prologo di Giovanni. Dice questo autore:
«Dio è impotente e debole nel mondo e così soltanto rimane con noi e ci aiuta. Cristo non ci aiuta in virtù della sua onnipotenza che ci sovrasta, ma ci aiuta in virtù della sua sofferenza», quindi in virtù della fraternità e solidarietà fondata sul fatto di essere sceso fino al nostro livello umano.
Dio è impotente e debole nel mondo, e soltanto a questa condizione rimane con noi, sta vicino a noi e ci comunica la sua vita.
Cerchiamo ora di immaginare come questo meraviglioso prologo, questo inno solenne sia risuonato nelle prime comunità cristiane, letto e illuminato dalla fede di una chiesa, la quale l'ha usato come preghiera.
Tante volte le nostre preghiere sono vuote, monotone. Perché non proviamo a muoverci alla scoperta di una preghiera più solenne, più ricca, più ispirata come questa del prologo, tanto usata nelle azioni liturgiche, letta e cantata lungo i secoli dalle comunità cristiane? Teresa d'Avila diceva:
«O Signore, liberami dalle sciocche devozioni dei santi dalla faccia triste!».
Teresa d'Avila stigmatizzava così certe squallide, edulcorate, sentimentali preghiere purtroppo ancora tanto diffuse tra il popolo cristiano.
Ecco ora il prologo di Giovanni davanti al nostro sguardo: è una meravigliosa preghiera. Ha l'incisiva bellezza delle cose antiche. In essa troviamo le radici autentiche della nostra grandezza, le ragioni della nostra fede e la sorgente di ogni preghiera.

[Ref. 920; Vol. I; pagg. 27-46]
Referenze
  1. Ravasi G.F. (1991) "Vangelo di Giovanni - Ciclo di conferenze tenute al Centro culturale S. Fedele di Milano"; EDB; Ristampa 1991 - Edizioni Dehoniane - Bologna
© 2006-2024 Alessandro PONE ed Edoardo PONE
Licenza Creative Commons
Versione 11.0 - HTML5 - .Net - MS-SQL - Responsive - Ajax
Ponesoft Machine

loading...

Elaborazione in corso...

Si è verificato un errore.
Contattare l'amministratore di sistema comunicando il seguente messaggio:

I dati verranno salvati nel database.

Confermi il salvataggio?

Questo record verrà cancellato definitivamente e non potrà essere recuperato.

Confermi la cancellazione?

Prima di procedere occorre confermare l'esecuzione del comando selezionato.

Confermi l'esecuzione?

Sono stati commessi degli errori nell'inserimento dei dati. Un apposito messaggio posizionato sotto ogni campo errato segnalerà il tipo di errore commesso.

Non sono presenti record in archivio.

Si è tentato di duplicare il valore della Chiave Primaria di una Tabella.

Errore nella verifica di User ID e Password.
Rieffettuare il Log-In.